DALL’INTERNOZIONALE
Amani al Ahmadi aveva appena 10 anni quando è stata portata nell’auditorium della sua scuola femminile di Yanbu, una città sul mar Rosso nella provincia di Al Madinah, in Arabia Saudita. Lì lei e le sue compagne sono state informate che avrebbero ricevuto la visita di un gruppo di donne di un centro Dar al Reaya, un famigerato sistema di strutture di detenzione femminile. Le bambine hanno preso posto senza sapere cosa aspettarsi. All’improvviso sulla parete sono state proiettate le foto di piccole celle che potevano ospitare due o quattro ragazze. Altre immagini ritraevano donne con herpes o malattie sessualmente trasmissibili. Al Ahmadi e le sue compagne erano terrorizzate. Per evitare un destino simile, ammonivano le visitatrici, dovevano obbedire alle loro famiglie ed evitare di mescolarsi con i ragazzi, altrimenti anche loro sarebbero state rinchiuse o si sarebbero ammalate.
Sono questi i primi ricordi di Al Ahmadi, che oggi si batte per i diritti delle donne e vive negli Stati Uniti, sul modo in cui il governo saudita costringe le donne a rispettare il suo sistema patriarcale di tutela. In base a questo sistema, un parente maschio – marito, padre o, in alcuni casi, figlio – ha la piena autorità per prendere le decisioni fondamentali per conto di una donna. Anni dopo Al Ahmadi ricorda ancora quelle immagini e la paura che evocavano. Questa paura riecheggia in ogni intervista che ho fatto negli ultimi due anni alle donne che hanno trovato rifugio all’estero dopo aver lasciato l’Arabia Saudita.
Ciò da cui fuggono è la Dar al Reaya, un’istituzione il cui nome si traduce, eufemisticamente, con “casa di cura”.
Secondo il ministero per le risorse umane e lo sviluppo sociale saudita, negli istituti Dar al Reaya ci finiscono due tipi di donne: quelle che hanno bisogno di “correzione sociale” e di “rafforzamento della fede religiosa” perché “hanno deviato dalla retta via” e le minori di trent’anni in attesa di un’indagine o un processo. In realtà però non ci sono solo loro.
Peggio che in carcere
Il poco che si sa del sistema Dar al Reaya proviene da notizie brevi e frammentarie, dai racconti di chi ha lavorato nei centri e dalle testimonianze di ex detenute, conosciute come nazeelat. Anche se non sono prigioni pubbliche, gli istituti funzionano come se lo fossero e in alcuni casi le detenute sono trattate peggio che in carcere. In un video pubblicato su YouTube, una donna racconta di essere stata perquisita al suo arrivo e messa in isolamento. Ricorda che a volte di notte sentiva le donne nelle loro celle emettere suoni simili a miagolii. La donna, che ha più volte invocato la vendetta di Dio, sperava che il video facesse conoscere alla gente quello che succede nelle “case di cura”.
Il video è stato subito rimosso. Gli account Twitter che parlavano dei centri Dar al Reaya sono stati sospesi. In rete si trovano solo articoli o denunce delle attiviste saudite per i diritti delle donne. A volte le notizie riescono a farsi strada sui mezzi d’informazione sauditi, soprattutto nel caso in cui le fuggitive trovano rifugio all’estero, ma servono solo da ammonimento sulle difficoltà incontrate da chi decide di scappare.
A rafforzare questa paura è la facilità con cui si può finire in istituto. In alcuni casi un’accusa di disobbedienza da parte di un guardiano può significare un viaggio di sola andata alla “casa di cura”. Ma ci vanno anche donne che hanno cercato di sottrarsi agli abusi subiti in casa, denunciandoli o tentando di fuggire dal loro tutore. In una società che ha istituzionalizzato il sistema di tutela, il governo ha creato una situazione assurda. Se una donna ha bisogno del permesso di un uomo per muoversi, dove vanno a finire le donne che non hanno più un tutore? Nel 2014 alcune attiviste hanno inviato una lettera all’allora re Abdullah per chiedere la modifica delle leggi che puniscono la disobbedienza e l’assenza da casa e la liberazione delle donne prive di un tutore detenute nei centri Dar al Reaya. Ma non è servito a niente. A gennaio, quando si è diffusa la storia di Ebtehaj, una quindicenne abusata dal padre, molte persone hanno chiesto che venisse rilasciata dalla “casa di cura” in cui si trovava.
Dato che molte detenute sono state denunciate o ripudiate dai familiari, spesso nessuno torna a cercarle
“Ci sono pochissime informazioni e testimonianze di persone che sono state detenute nei centri Dar al Reaya”, conferma Hala al Dosari, nota attivista e studiosa saudita. “Le donne riescono a raccontare le loro storie solo molti anni dopo il rilascio, quando hanno raggiunto un posto sicuro. Sappiamo che ci sono stati anche dei suicidi”. Una detenuta, Lamia, si è impiccata nella sua cella dopo aver passato venti giorni in isolamento. Questo ha spinto l’allora governatore di Jeddah a chiedere un’indagine. Il gestore della struttura ha accusato il ministero per gli affari sociali, a cui è affidata la supervisione dei centri Dar al Reaya, di non aver installato correttamente le telecamere di sorveglianza nella cella. Nessuno è stato ritenuto responsabile dell’accaduto.
Dato che molte detenute sono state denunciate o ripudiate dai familiari, spesso nessuno torna a cercarle, e men che meno a chiedere giustizia. Una delle poche detenute ad aver ricevuto l’attenzione dell’opinione pubblica nel regno è stata Loujain al Hathloul.
L’attivista per i diritti delle donne è stata arrestata e detenuta in un istituto Dar al Reaya per 73 giorni nel 2014, con l’accusa di aver tentato di entrare in Arabia Saudita dagli Emirati Arabi Uniti per protestare contro il divieto di guidare imposto alle donne nel regno. Secondo una fonte a conoscenza dei fatti, Al Hathloul è stata portata in una struttura nella Provincia orientale, perquisita (dopo essere stata denudata interamente tranne un pezzo di stoffa per coprire le parti intime), poi messa in isolamento. Al momento del rilascio, un funzionario le ha imposto di non parlare della sua detenzione.
Al Hathloul, che in passato aveva cercato di aprire una casa rifugio per donne vittime di violenze, è stata arrestata di nuovo nel 2018 e condannata da un tribunale che si occupa di terrorismo a quasi sei anni di carcere in un processo ritenuto da molti una farsa basata su accuse fasulle (il 10 febbraio è stata rilasciata).
Tornare a casa
Mentre nei centri Dar al Reaya sono rinchiuse le minori di trent’anni, un altro tipo di struttura, chiamata Dar al Theyafa, o “Casa dell’ospitalità”, sotto il controllo dello stesso ministero, è riservato alle donne che hanno scontato le condanne e aspettano di tornare a casa. Nei centri Dar al Theyafa le donne passano dalla custodia dell’istituto a quella di un tutore, spesso lo stesso che le ha mandate in prigione o dal quale cercavano di scappare.
È raro che una donna ripudiata e rinnegata dalla famiglia sia riaccolta dopo la detenzione. Nonostante questo l’obiettivo della “casa dell’ospitalità” è trasferire la custodia della donna a un tutore nel giro di due mesi. Se il tutore o la famiglia si rifiutano di accettarla, l’istituzione le trova un pretendente. “Ci sono molte storie di donne costrette a sposarsi”, racconta Al Dosari.
Alcune donne che hanno denunciato il loro tutore per violenze domestiche hanno raccontato che nessuno le ha prese sul serio. In alcuni casi la polizia fa firmare al tutore un documento in cui s’impegna a non maltrattare più la donna, ma una volta lontani da sguardi indiscreti nessuno verifica che gli abusi non si ripetano. Un custode può anche presentare una contro-accusa sostenendo che la donna che gli è stata affidata aveva semplicemente disobbedito e meritava una punizione corporale. Una donna rilasciata da un centro Dar al Reaya può essere di nuovo incarcerata anche solo sulla base della contro-accusa di un custode.
Senza alternativa
Il dilemma tra restare in uno stato di detenzione simile alla tortura o intrappolata con un marito o un padre violento non lascia a molte saudite altra scelta che correre rischi alti, come scappare dal paese. Le donne fuggite raccontano di non aver avuto alternativa.
Rahaf Mohamed si è barricata in una stanza d’albergo nell’aeroporto di Bangkok nel gennaio del 2019 dopo aver fatto richiesta di asilo e invocato aiuto su Twitter. Ha rifiutato di essere rimandata alla sua famiglia. La sua storia è uno dei casi più famosi di donne in fuga dal regno e alla fine le è stato concesso asilo all’estero. Mohamed mi ha raccontato di essere fuggita da un tutore violento e da un sistema che ha ignorato le sue denunce. Ha confermato le condizioni simili a quelle di un carcere nei centri Dar al Reaya, ma non ha voluto scendere nei dettagli.
Mesi dopo la fuga di Mohamed, Maha Zayed al Subaie e sua sorella Wafa sono scappate dal regno quando il padre, a quanto pare un aguzzino seriale, ha colpito Maha davanti a suo figlio (essendo divorziata, la sua custodia era tornata dal marito al padre). Maha è andata via senza il figlio. “Le persone mi chiedono ‘Come hai potuto lasciare tuo figlio in Arabia Saudita e andartene?’. Ma io ho dovuto farlo”, racconta. “Non posso essere una madre debole. Posso essere solo una madre forte lontana da lui, non con lui. Più avanti capirà”.
Zayed al Subaie ha ottenuto asilo all’estero. Ha raccontato che se fosse rimasta avrebbe continuato a subire violenze dal padre o sarebbe finita in un centro Dar al Reaya.
“Non esiste codice penale né chiarezza sulle azioni da considerare un reato”, spiega Al Dosari. “I giudici interpretano in modo soggettivo la religione. Ecco perché in tribunale ci sono incongruenze, perfino in casi simili. Una donna che è stata vista con un uomo in un centro commerciale può essere condannata a tre mesi di reclusione, un’altra a un anno e cento frustrate. Non c’è nemmeno un documento di condanna che spieghi le ragioni di queste decisioni. La legge in Arabia Saudita è vaga, le donne non sanno cosa è accettabile e cosa non lo è”.
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Le saudite sono state portate a credere che la loro situazione sarebbe migliorata.
Da quando Mohammed bin Salman (detto Mbs) è diventato principe ereditario, nel giugno del 2017, la monarchia saudita ha compiuto dei passi apparentemente a favore delle donne. Pochi mesi dopo essere entrato in carica, Mbs ha promesso che il regno, l’ultimo luogo al mondo in cui era ancora in vigore il divieto di guidare per le donne, avrebbe allentato le restrizioni sui contatti tra i generi, aperto i cinema anche alle donne e alleggerito alcune norme sulla tutela.
Nel giro di poco tempo Mbs è stato presentato all’occidente come la cosa più vicina a un femminista nel governo saudita. È nota la sua dichiarazione a Norah O’Donnell del programma 60 minutes che donne e uomini sono uguali. Il programma è andato in onda poche ore prima dell’inizio di un tour promozionale di tre settimane negli Stati Uniti nel marzo del 2018. Durante il viaggio, Mbs ha incontrato Mark Zuckerberg, Rupert Murdoch, Morgan Freeman, Oprah Winfrey e Dwayne “The Rock” Johnson, ed è stato lodato come un riformatore da Thomas Friedman sul New York Times. Poche settimane dopo il principe ereditario ordinava l’incarcerazione di alcune attiviste saudite (tra cui Al Hathloul) e un anno dopo i servizi segreti statunitensi hanno stabilito la sua responsabilità nel brutale omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato saudita di Istanbul.
Prese di mira
Riforme come l’allentamento delle restrizioni sui viaggi o sul mescolamento tra i generi sembrano più dei cambiamenti superficiali volti a mascherare un persistente sistema di repressione delle donne, in cui lo stato e uomini violenti continuano a controllare il destino delle cittadine. “La società è governata dalla monarchia”, afferma Al Ahmadi. “Gli uomini non hanno alcun potere politico, ma potendo dominare le donne sentono comunque di avere una qualche sorta di potere. Abolendo il sistema della tutela questi uomini tribali si scaglierebbero contro il governo. Ecco perché in Arabia Saudita il femminismo è così strettamente legato alla politica”.
Ed ecco perché il 2019 è stato l’anno delle fuggitive.
Spesso denigrate dalla stampa di stato, queste donne sono state prese di mira dalla propaganda antifemminista, che continua a dire che la vita in Arabia Saudita è molto meglio che all’estero. In un’intervista andata in onda in un talk show televisivo su Saudi Ya Hala, uno psichiatra a cui è stata chiesta un’opinione sul caso delle fuggitive concludeva che la definizione occidentale di abuso (ta’neef) non dovrebbe essere applicata ad altre società: dovrebbe esserci una definizione diversa per gli arabi, e un’altra ancora per i sauditi. Maha Zayed al Subaie ha dichiarato che se avesse avuto la possibilità di sottrarsi alla tutela del padre e trasferirsi in un’altra casa con il figlio, non sarebbe mai andata via.
Molte delle donne fuggite negli ultimi anni hanno evitato di condividere le loro storie in rete, nel timore di essere denigrate sui mezzi d’informazione e di ritorsioni contro i familiari rimasti nel paese. Quelle che, come le sorelle Zayed al Subaie, avevano accumulato migliaia di follower e grande sostegno su Twitter, hanno lasciato i social network dopo aver ricevuto asilo.
Fatima, anche lei una fuggitiva, ha paura di svelare il suo nome o di essere intervistata in televisione. La sua famiglia l’ha ripudiata. “Ora possono dire che sono morta. Ma se vado in tv non potrebbero più nascondere la vergogna”, racconta.
“Mbs ha detto a tutto il mondo che le donne possono guidare e prendere la patente senza dire che in realtà non possono uscire di casa”, aggiunge. Da quando è arrivata in Australia, ha aiutato altre saudite in fuga a trovare una nuova casa. “Abbiamo ancora una legge chiamata taghaiub (assenza). Se lasci la tua casa senza il permesso di un tutore, sei considerata criminale. Mbs sta prendendo in giro l’occidente. Lì non si sa nulla dei centri Dar al Reaya”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)